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L’Alfa Romeo fu fondata nel 1910, passò allo Stato Italiano negli anni cinquanta e
dopo una crisi negli anni settanta passò alla Fiat nel 1986

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La storia dell’Alfa Romeo iniziò il 10 giugno 1910.Nel 1933 la proprietà dell’Alfa
Romeo passò, attraverso l’IRI, allo Stato italiano fino all’inizio degli anni
cinquanta, quando si trasformò in un’industria automobilistica vera e propria grazie
all’introduzione della catena di montaggio. Negli anni settanta ci fu una profonda
crisi che portarono poi lo Stato italiano, nel 1986, a vendere la casa
automobilistica al gruppo Fiat.

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La storia dell’Alfa Romeo, casa automobilistica italiana nota per la produzione di
autovetture di carattere sportivo, iniziò il 10 giugno 1910 con la fondazione a
Milano dell’ALFA (acronimo di “Anonima Lombarda Fabbrica Automobili”). Nel 1918
l’azienda cambiò nome in “Alfa Romeo” in seguito all’acquisizione del controllo della
società da parte di Nicola Romeo.
Nel 1933 la proprietà dell’Alfa Romeo passò, attraverso l’IRI, allo Stato italiano a
causa del forte indebitamento che la società aveva contratto con le banche a partire
dal decennio precedente. L’Alfa Romeo continuò a produrre vetture in modo semi
artigianale fino all’inizio degli anni cinquanta, quando si trasformò in un’industria
automobilistica vera e propria grazie all’introduzione, nei reparti produttivi, della
catena di montaggio. A partire da questo decennio l’Alfa Romeo conobbe una fase di
crescente successo che raggiunse il suo culmine negli anni sessanta. Negli anni
settanta ci fu invece un’inversione di tendenza che causò una profonda crisi. I conti
in rosso portarono poi lo Stato italiano, nel 1986, a vendere la casa automobilistica
al gruppo Fiat. Il rilancio dell’Alfa Romeo avvenne infine nella seconda parte degli
anni novanta.

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Storia dell’Alfa Romeo
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1leftarrow.pngVoce principale: Alfa Romeo.
Il marchio dell’Alfa Romeo
La storia dell’Alfa Romeo, casa automobilistica italiana nota per la produzione di
autovetture di carattere sportivo[1], iniziò il 10 giugno 1910 con la fondazione a
Milano dell’ALFA (acronimo di “Anonima Lombarda Fabbrica Automobili”)[2]. Nel 1918
l’azienda cambiò nome in “Alfa Romeo” in seguito all’acquisizione del controllo della
società da parte di Nicola Romeo[3].
Nel 1933 la proprietà dell’Alfa Romeo passò, attraverso l’IRI, allo Stato italiano a
causa del forte indebitamento che la società aveva contratto con le banche a partire
dal decennio precedente[4]. L’Alfa Romeo continuò a produrre vetture in modo semi
artigianale fino all’inizio degli anni cinquanta, quando si trasformò in un’industria
automobilistica vera e propria grazie all’introduzione della catena di montaggio[5]
nei reparti produttivi. A partire da questo decennio l’Alfa Romeo conobbe una fase di
crescente di successo che raggiunse il suo culmine negli anni sessanta[6]. Negli anni
settanta ci fu invece un’inversione di tendenza che causò una profonda crisi[7]. I
conti in rosso portarono poi lo Stato italiano, nel 1986, a vendere la casa
automobilistica al gruppo Fiat[8]. Il rilancio dell’Alfa Romeo avvenne infine nella
seconda parte degli anni novanta[9].
Indice [nascondi]
1 L’ALFA
2 La nascita del marchio Alfa Romeo
3 Il primo dopoguerra e gli anni venti
4 Gli anni trenta e quaranta
5 Gli anni cinquanta
6 Gli anni sessanta
7 Gli anni settanta
8 Gli anni ottanta
9 Gli anni novanta
10 Gli anni duemila e duemiladieci
11 Note
12 Bibliografia
13 Voci correlate
L’ALFA[modifica | modifica sorgente]
Le origini dell’Alfa Romeo hanno ascendenze francesi e napoletane. La genesi del
marchio è infatti collegata alla fondazione della Società Italiana Automobili
Darracq, che fu aperta a Napoli il 6 aprile 1906[10][11]. L’avventura imprenditoriale
si rivelò però subito irta di difficoltà soprattutto a causa dell’elevata lontananza
di Napoli dalla Francia[12]. Per questo motivo, già alla fine del 1906, la società fu
trasferita a Milano con la costruzione di uno stabilimento in zona Portello[12]. Il
primo insediamento industriale che fu all’origine dell’Alfa Romeo, e che rimase
attivo fino al 1986, fu edificato su un vasto piazzale confinante con le aree che
avevano ospitato l’Expo 1906[13][14]. Le difficoltà però continuarono e le vendite si
dimostrarono insufficienti a garantire la sopravvivenza dell’attività produttiva[12].
A causa di questi problemi, già alla fine del 1909 la società fu posta in
liquidazione[12] e fu poi rilevata da alcuni imprenditori lombardi, che la
acquistarono nel 1910 insieme a Ugo Stella, che partecipò alla transazione[2].
Giuseppe Merosi
Un’ALFA 24 HP del 1910 carrozzata da Castagna
Il cambio di proprietà ebbe luogo il 10 giugno 1910, nell’occasione del quale
l’azienda mutò il nome in ALFA (acronimo di “Anonima Lombarda Fabbrica Automobili”)
[2]. Il nome scelto richiamava la prima lettera dell’alfabeto greco, volendo
sottolineare l’inizio di una nuova avventura industriale[2].
A questo punto la nuova dirigenza riconobbe l’esigenza di rivedere completamente i
propri modelli adattandoli alle esigenze del mercato italiano[12][15] e quindi decise
di assumere Giuseppe Merosi, un progettista piacentino con all’attivo diverse
esperienze nella nascente industria automobilistica italiana[15][12]. A Merosi, che
divenne perciò il primo responsabile tecnico della neonata casa automobilistica, fu
affidato il compito di progettare un modello di autovettura totalmente nuovo[2].
Nell’occasione venne anche disegnato il primo logo dell’azienda[2]. Abbozzato da
Merosi stesso[2], il marchio ricordava i legami dell’ALFA con la città di origine: da
un lato il serpente visconteo (il “biscione”), dall’altro la croce rossa in campo
bianco, simbolo medioevale di Milano[2]. Attorno ai due emblemi erano presenti le
diciture “ALFA” e “MILANO” divise da due nodi sabaudi in onore alla Casa regnante
italiana[2].
Il nuovo modello fu lanciato già nello stesso anno in cui venne effettuato il cambio
di proprietà[2]. Progettata da Merosi, l’ALFA 24 HP, questo il suo nome, possedeva un
motore in linea a quattro cilindri e valvole laterali da 4.084 cm³ di cilindrata che
erogava 42 CV di potenza (i 24 HP nel nome del modello si riferivano invece alla
potenza fiscale[16])[17][18]. La 24 HP venne progettata considerando i difetti dei
modelli Darracq, e pertanto fu dotata di una struttura molto robusta e di un motore
potente che permetteva alla vettura di raggiungere la ragguardevole velocità (per
l’epoca) di 100 km/h[16][17]. Il modello garantì l’affidabilità grazie ai collaudi
preliminari che furono effettuati prima del lancio per volere di Giuseppe Merosi, e
quindi le vendite dell’ALFA cominciarono gradualmente a crescere[19]. La 24 HP era
però commercializzata con telaio “nudo”, cioè privo della carrozzeria; all’epoca,
infatti, era comune vendere i modelli prodotti senza il corpo vettura, così da dare
agli acquirenti la possibilità di completarli secondo i propri gusti personali
portandoli dal carrozziere di fiducia[16][19].
Dalla 24 HP fu derivato il primo modello di autocarro costruito dall’Alfa Romeo.
Realizzato nel 1914, fu ottenuto tramite una sostanziale modifica della struttura
della vettura[20]. Questo autocarro inaugurò una tradizione che segnò la casa del
Biscione per decenni. L’Alfa Romeo ha infatti prodotto veicoli commerciali fino al
1988 ed è stata, dopo la FIAT, l’azienda italiana che ha costruito questa tipologia
di mezzi di trasporto per più tempo[21].
La 24 HP ebbe successo e quindi, nello stesso anno, fu lanciata una vettura più
piccola, la 12 HP, che era dotata di un motore in linea a quattro cilindri da 2.413
cm³ e 22 CV[16][19]. Sia il propulsore sia il telaio della 12 HP derivavano da quelli
della 24 HP[19]. Nel 1911 la 12 HP fu aggiornata con l’installazione di una versione
potenziata del motore, che ora erogava 24 CV; per tale motivo, il modello mutò nome
in 15 HP, dato che cambiarono anche i cavalli fiscali nonostante la cilindrata fosse
rimasta la stessa[19]. La 15 HP nel 1914 subì un aggiornamento analogo a quello che
aveva portato alla sua nascita. Questi mutamenti coinvolsero infatti principalmente
il motore: la cilindrata fu mantenuta inalterata a fronte di un aumento della potenza
erogata, che crebbe fino a 28 CV[22]. Da queste modifiche nacque la 15-20 HP[22].
L’anno precedente (1913) era stato invece lanciato il modello successore della 24 HP,
la 40-60 HP[16]. Questa nuova vettura rappresentava sostanzialmente il frutto dello
sviluppo del modello precedente e segnò un punto di svolta per la progettazione delle
autovetture della casa automobilistica, grazie all’elevato livello ingegneristico
della sua meccanica[16][23]. Il nuovo modello aveva montato un motore a sei cilindri
da 6.082 cm³ e 70 CV[17][16] che si differenziava dai propulsori precedenti per la
presenza di valvole in testa in luogo di quelle in posizione laterale[24].
Un’ALFA 40-60 HP da competizione
Nel 1911 l’ALFA debuttò, con la 24 HP, nelle competizioni automobilistiche[16]. Per
tentare di conquistare nuovi acquirenti, la dirigenza dell’ALFA stava pensando al
lancio di una nuova vettura che avrebbe dovuto essere caratterizzata da un livello di
allestimento più lussuoso e da un prezzo più alto, perlomeno rispetto agli standard
dei modelli precedenti[24]. L’idea fu però presto accantonata per i rischi connessi,
che erano collegati a una possibile risposta negativa da parte del mercato e al
pericolo di perdere i clienti già acquisiti[24], abituati alle peculiarità delle
precedenti vetture dell’ALFA: non si poteva quindi prevedere la loro reazione nei
confronti di una tipologia di vetture completamente nuova[24]. Fu pertanto deciso di
preparare un modello da corsa, che con i suoi eventuali successi avrebbe potuto
attrarre nuovi acquirenti[24]. Merosi fu pertanto incaricato di trasformare due
esemplari di 24 HP in vetture adatte alle corse[24]. L’obiettivo venne raggiunto
grazie all’alleggerimento dei due veicoli che fu ottenuto, ad esempio, con
l’eliminazione della carrozzeria[24]; inoltre venne accorciato il passo e furono
sostituiti gli assali[24]. Questi esemplari furono iscritti alla Targa Florio del
1911, ma senza successo; i risultati deludenti furono poi ripetuti anche l’anno
seguente[24]. Il successo nelle gare arrivò però nel 1913 grazie a una versione da
competizione della 40-60 HP. Il modello vinse la Parma-Poggio di Berceto
classificandosi primo nella propria classe e secondo nella graduatoria assoluta[24].
La vittoria della 40-60 HP diede all’ALFA l’impulso a continuare la partecipazione
alle competizioni e ciò si tradusse nella progettazione di un modello da gara adatto
a partecipare ai Gran Premi di automobilismo[25], che riscuotevano maggior interesse
da parte del pubblico rispetto alle gare di resistenza[25]. Nel 1914 Giuseppe Merosi
fu pertanto incaricato di progettare un modello utile allo scopo, impiegando però
come base della progettazione nuovamente una vettura esistente, dato che la
realizzazione da zero di un nuovo modello avrebbe assorbito troppe risorse
finanziarie[25]. Nel 1914 nacque così l’ALFA Grand Prix, che derivava dalla 40-60 HP
e che fu la prima auto progettata dalla casa del Biscione a essere destinata
esclusivamente alle competizioni[23][25]. Il modello era caratterizzato da
innovazioni riguardanti la tecnologia del motore[26]: aveva infatti una distribuzione
a doppio albero a camme in testa e possedeva una duplice accensione per cilindro[26].
L’unità motrice fu il primo motore della casa del Biscione ad avere queste
caratteristiche e fu pertanto l’antesignano del propulsore bialbero Alfa Romeo e del
sistema di accensione Twin Spark, che furono prodotti qualche decennio dopo[26]. A
causa dello scoppio della prima guerra mondiale, a cui inizialmente l’Italia non
prese parte, l’organizzazione delle competizioni internazionali fu sospesa e quindi
l’ALFA Grand Prix ebbe un’attività agonistica piuttosto breve[25].
La nascita del marchio Alfa Romeo[modifica | modifica sorgente]
Nicola Romeo
Prima dell’entrata in guerra dell’Italia, le vendite dell’ALFA aumentarono
gradualmente, passando dagli 80 esemplari del 1911 ai 150 del 1912, ai 200 del 1913,
ai 272 del 1914 per poi calare ai 207 del 1915[13]. Con lo scoppio del conflitto
(1914), la casa automobilistica milanese entrò infatti in crisi per la stagnazione
del mercato interno dell’auto e per l’interruzione delle esportazioni[13][27].
L’ALFA, difatti, stava in quegli anni allargando i propri orizzonti commerciali
puntando anche ai mercati esteri[13]. La situazione precipitò con l’entrata in guerra
dell’Italia (1915)[27]. L’apparato produttivo nazionale convertì le proprie attività
industriali per soddisfare la richiesta di forniture belliche e ciò mise l’ALFA in
una situazione di difficoltà[27][28]: i proprietari della casa automobilistica
milanese non possedevano le risorse finanziarie per convertire gli impianti a tale
scopo[26]. Fu comunque fatto un tentativo, da parte di Merosi, di modificare il
motore della 15-20 HP in un generatore adatto al Regio Esercito, ma senza successo
[3]. Per evitare di trovarsi in una situazione in cui la fabbrica non avrebbe
prodotto più utili, la proprietà decise pertanto di vendere l’ALFA alla Banca
Italiana di Sconto[26].
L’istituto di credito individuò in Nicola Romeo, un ingegnere meccanico di
Sant’Antimo, comune in provincia di Napoli, il potenziale acquirente che avrebbe
potuto acquistare l’ALFA[17][26]. In precedenza Romeo, dopo aver avuto alcune
esperienze all’estero, aveva fondato nel 1911 a Milano la “Società in accomandita
semplice Ing. Nicola Romeo e Co.” per la produzione di macchinari destinati alle
attività estrattive[17]. Dopo lo scoppio della guerra, l’imprenditore napoletano
decise di entrare nel business delle commesse militari ottenendo nel luglio del 1915
un rilevante ordinativo per il Regio Esercito, che prevedeva la produzione di
munizioni[29]. Dato la che sua società non possedeva le risorse per soddisfare questo
ordine, Nicola Romeo decise di rilevare l’ALFA entrando nel capitale societario con
l’acquisto di alcune azioni[3][29]. Il 4 agosto 1915 Nicola Romeo fu nominato
direttore dello stabilimento del Portello[29] e nel giro di due anni il gruppo
industriale capitanato dall’ingegnere di Sant’Antimo riuscì ad acquisire il controllo
della società; nell’occasione, l’ALFA cambiò denominazione in “Società Anonima
Italiana Ing. Nicola Romeo”[3]. Essa si concentrò quindi nella fabbricazione di
munizioni, motori aeronautici su licenza Isotta-Fraschini e attrezzature da miniera,
che erano fondamentali nelle trincee del fronte italiano[30], interrompendo
temporaneamente la produzione di autovetture[27]. Le attrezzature da miniera erano
mosse da compressori d’aria che furono progettati da Merosi e che erano azionati dai
motori già montati sulla 15 HP e sulla 24 HP[30]. In questo contesto, a causa del
rapporto conflittuale che esisteva tra Merosi e Romeo il progettista piacentino fu
inviato nel Sud Italia a guidare uno stabilimento di proprietà dell’ingegnere di
Sant’Antimo[3][31].
Terminata la guerra, le commesse militari si esaurirono e Romeo decise di
riconvertire le attività dell’azienda nella produzione di autovetture a uso civile
[3][30]. Questo processo fu facilitato dalle giacenze in magazzino di componenti di
vetture che erano stati realizzati prima del conflitto[3] e dai cospicui fondi
accantonati da Romeo grazie alle forniture militari[30]. Romeo, che era a conoscenza
del valore del marchio ALFA nella commercializzazione di modelli di autovettura,
decise di cambiare il nome della società in “Alfa Romeo”[3]. L’atto ufficiale della
nascita dell’Alfa Romeo è datato 3 febbraio 1918 e venne firmato dal notaio Federico
Guasti di Milano[17]. Nello stesso anno Merosi tornò in azienda in seguito
all’appianamento dei conflitti con Romeo[31]. Ciò fu ottenuto anche grazie alla
revisione del contratto che legava Merosi alla casa automobilistica del Portello[31],
includendo un pagamento straordinario in funzione del numero di vetture vendute[31].
La liquidità finanziaria era stata anche precedentemente impiegata, dal gruppo di
Romeo, per l’acquisto di altre società meccaniche: le Costruzioni Meccaniche di
Saronno, le Officine Ferroviarie Meridionali di Napoli e le Officine Ferroviarie
Romane[30]. Con esse Romeo costruì materiale rotabile fino al 1925[32]. Romeo però
non possedeva la maggioranza azionaria delle aziende del suo gruppo: ulteriori soci
erano infatti la Banca Italiana di Sconto e altri finanzieri[33]. Nonostante non
possedesse la maggioranza, Romeo riusciva però ad avere il controllo assoluto delle
aziende da lui guidate[34].
Il primo dopoguerra e gli anni venti[modifica | modifica sorgente]
Un’Alfa Romeo 20-30 HP
La RL Targa Florio di Ugo Sivocci
Il primo modello di autovettura prodotto dopo la fine della prima guerra mondiale
grazie alle giacenze di magazzino fu la prebellica 15/20 HP, la cui
commercializzazione ricominciò nel 1919[3][35]. Per vedere la ripresa della normale
produzione di autovetture fu necessario però aspettare il 1920, quando venne lanciata
l’Alfa Romeo 20-30 HP, che fu pertanto il primo modello da strada a essere
commercializzato con la nuova denominazione della società[17]. Il marchio Alfa Romeo
aveva già debuttato il 23 novembre 1919 su una versione da competizione della 40-60
HP, che partecipò alla Targa Florio[35].
Nel 1921 fu lanciato un nuovo modello progettato da Merosi, la G1[36][37]. La 40-60
HP era diventata infatti obsoleta e quindi l’offerta dell’Alfa Romeo necessitava di
un modello d’alto livello completamente nuovo[38]. La G1, per le sue dimensioni
imponenti, era la più grande Alfa Romeo mai costruita fino ad allora[36][38]. Il
modello, però, non aveva mercato in Italia anche a causa dell’imposizione fiscale
elevata che, essendo calcolata in funzione della cilindrata, penalizzava i modelli
con motore di grande cubatura[38]. I 50 costosi esemplari prodotti furono pertanto
venduti tutti in Australia[36].
Gli affari peggiorarono a causa delle basse vendite[36]. I motivi di questo scarso
successo risiedevano nell’assenza quasi totale di una rete di concessionari e nella
disorganizzazione societaria che era originata dalla gestione di Romeo[36] che, di
conseguenza, iniziò a indebitarsi con le banche[36]. Gli affari non migliorarono
neppure con il lancio di una nuova vettura che era dotata di un motore a sei cilindri
progettato da Merosi, la RL[39]. Il nuovo modello venne accolto tiepidamente dal
mercato proprio a causa del motore, caratterizzato da un potenza relativamente bassa
[40]. Comunque, la RL fu lanciata sui mercati per completare la gamma con un modello
da strada la cui versione da competizione avrebbe dovuto soddisfare i nuovi
regolamenti dei Gran Premi[39], che prevedevano una riduzione della cilindrata
massima delle vetture partecipanti[39]. La RL fu però importante per la storia della
casa del Biscione: su un esemplare della versione da competizione esordì infatti il
simbolo del quadrifoglio Alfa Romeo che, da allora, sarebbe comparso in tutte le
attività competitive della casa milanese e sulle versioni più sportive delle sue
vetture[41][42]. Il quadrifoglio fu dipinto dal pilota Ugo Sivocci sulla propria
vettura in occasione della Targa Florio del 1923 per motivi scaramantici, dato che il
modello era iscritta alla competizione con il numero 17; con questo simbolo il pilota
salernitano conquistò la prima vittoria in carriera[41][43]. L’affermazione fu anche
la prima dell’Alfa Romeo nella celebre competizione siciliana[41]. Negli anni venti
l’Alfa Romeo ampliò con successo l’attività sportiva grazie a piloti del calibro di
Antonio Ascari, Giuseppe Campari, Enzo Ferrari e lo stesso Sivocci[41][44][45].
Grazie alle vittorie sportive l’Alfa Romeo raggiunse una fama di livello
internazionale[46].
Vittorio Jano e un’Alfa Romeo P2[47]
In ambito finanziario, la situazione dell’Alfa Romeo peggiorò con il fallimento nel
1921 della Banca Italiana di Sconto[40]. Questo avvenimento fu cagionato
dall’eccessivo indebitamento contratto dalle aziende, che erano infatti in difficoltà
per le complicazioni dovute alla riconversione postbellica[40]. L’istituto bancario
fallito fu rilevato dalla Banca d’Italia attraverso la Banca Nazionale di Credito e
quindi una parte dei debiti delle aziende interessate fu sostanzialmente gestita
dallo Stato italiano[40]. Di conseguenza queste società furono controllate di fatto
dallo Stato italiano anche dal punto di vista amministrativo e l’Alfa Romeo non fece
eccezione[48]. Nel 1922 prese il potere Benito Mussolini; il capo del fascismo decise
di operare un taglio della spesa pubblica e quindi la Banca Nazionale di Credito non
fu più in grado di elargire la cospicua liquidità che era stata fornita fino ad
allora[40]. Non avendo più accesso al credito con relativa facilità, la situazione
dell’Alfa Romeo peggiorò quindi notevolmente e venne ventilata l’ipotesi di chiusura
[40]. Però nei confronti della casa automobilistica milanese, Mussolini non era così
perplesso come per le altre realtà industriali in crisi[40]. Secondo il Duce,
infatti, le vittorie dell’Alfa Romeo nelle competizioni automobilistiche davano al
marchio, e quindi di riflesso anche all’Italia, un certo prestigio[40]. Mussolini
decise pertanto di salvare l’Alfa Romeo dalla chiusura[40]. Però, con le vendite che
continuavano a languire, nel 1925 la Banca Nazionale di Credito fece valere il suo
peso ed estromise dall’azienda Romeo, sostituendolo con Pasquale Gallo[40].
L’appannamento del marchio Alfa Romeo causato dalla scarso successo commerciale dei
modelli da strada fu mitigato dai successi nelle competizioni, e in particolare dal
trionfo dell’Alfa Romeo P2 nel primo campionato del mondo di automobilismo
organizzato nella storia (1925), che venne conquistato grazie alle vittorie di
Antonio Ascari e Gastone Brilli-Peri[36][49]. I due sconfissero i piloti delle case
automobilistiche che dominavano i Gran Premi dell’epoca e che erano pertanto favorite
per il titolo (Bugatti, Fiat, Delage, Sunbeam e Miller)[50]. Per celebrare la
vittoria, sul bordo dello stemma della casa automobilistica milanese venne aggiunta
una corona d’alloro[36]. La P2 fu la prima Alfa Romeo progettata da Vittorio Jano,
che nel frattempo aveva sostituito Merosi alla guida tecnica della società;
quest’ultimo, infatti, aveva lasciato l’Alfa Romeo a causa di contrasti con Gallo
[51]. In particolare, la scelta di sostituire Merosi con Jano fu presa il giorno
successivo alla morte di Sivocci su una P1 durante alcuni collaudi[52]. La proprietà
individuò nel direttore tecnico piacentino il principale responsabile della tragedia,
e quindi decise di sostituirlo[52]. La scelta del successore cadde poi su Jano, che
all’epoca lavorava in Fiat[52]. Essendo però evidente l’affinità tra il modello Alfa
Romeo campione del mondo e la Fiat 805, Giovanni Agnelli si convinse che Jano avesse
utilizzato come base per la P2 alcuni disegni provenienti dalla Fiat e quindi si
rivolse alle autorità competenti[52]. Le successive indagini scagionarono Jano: le
due vetture, nonostante la somiglianza estetica, erano infatti meccanicamente molto
differenti[47]. Con Jano per l’Alfa Romeo iniziò un periodo di grandi di successi
sportivi e di avanzamenti tecnologici che avrebbero in seguito portato al rilancio
dell’azienda[17].
Un’Alfa Romeo 6C 1500 del 1929
La partecipazione alle competizioni era un mezzo per accrescere le vendite delle auto
civili e quindi era essenziale lanciare un modello che, sulla scia della vittoria al
campionato del mondo, trainasse le vendite attraendo nuovi clienti[53]. Nel 1927
l’Alfa Romeo presentò pertanto la 6C 1500, ovvero un modello maneggevole e dalle
dimensioni contenute[51][54]. Progettata da Jano, la 6C 1500 derivava dalla P2[53] ed
era, da un punto di vista tecnologico, dotata di caratteristiche eccezionali[51]:
montava un motore a sei cilindri e valvole in testa da 1,5 L di cilindrata, che era
equipaggiato da un sistema di distribuzione monoalbero[51][55]. In seguito venne
aggiornata con l’installazione, sulla versione Sport, di un doppio albero a camme in
testa[56][57]. A causa delle inefficienze dell’azienda il modello venne però
commercializzato a un prezzo eccessivamente alto[51]. Inoltre la versione a passo
corto, quella sportiva, non ebbe il successo sperato e quindi il lancio della nuova
vettura non permise alla casa automobilistica milanese di capitalizzare la vittoria
al campionato mondiale[53]. Nonostante il mancato successo, la 6C fu comunque il
modello progenitore di una serie di vetture che sarebbero poi entrate nella storia
dell’automobile grazie alle loro prestazioni, alla loro linea e alla loro
affidabilità[56]. Alla 6C 1500 seguì infatti la 6C 1750, ottenuta dal modello
capostipite grazie a un aumento della cilindrata del motore[58]. La 6C 1500 Sport
conquistò, per la prima volta per l’Alfa Romeo, la Mille Miglia (1928)[43][57]. A
questo successo seguirono poi altre due vittorie (1929 e 1930) che furono invece
ottenute dalla 6C 1750[43][59].
Un’Alfa Romeo P3
Nel frattempo, a causa delle vicissitudini societarie che avevano coinvolto Gallo,
l’azienda era ancora in difficoltà nonostante la moderata ripresa delle vendite che
era stata registrata grazie al lancio della 6C 1750[51][60]. Gallo fu arrestato
perché venne colto in flagrante durante il tentativo di fornire aiuto a uno strenuo
oppositore del regime fascista, l’onorevole Cipriano Facchinetti, che voleva fuggire
dall’Italia[51]. La gestione di Gallo, a dispetto della breve durata, fu comunque
caratterizzata da una riorganizzazione delle attività produttive che fu poi
importante per il successivo rilancio dell’azienda[51]. A questo punto il Duce in
persona scelse come direttore Prospero Gianferrari, che migliorò ulteriormente i
processi produttivi e che costituì, all’interno dell’Alfa Romeo, un settore che si
sarebbe occupato di realizzare le carrozzerie, dando quindi la possibilità
all’azienda di costruire vetture complete[61]. Inoltre Gianferrari scelse di
diversificare l’attività produttiva[61]: nel 1931 venne introdotto il primo veicolo
industriale non derivato da autovetture stradali, l’Alfa Romeo Tipo 50, mentre nel
1932 fu presentato il primo motore aeronautico totalmente progettato dall’Alfa Romeo,
il D2, che fu poi montato sul Caproni Ca.101[62]. Per quanto riguarda le vetture, di
quegli anni fu l’introduzione, nel 1931, della 8C 2300[63] e il lancio della 6C 2300
[64]. Sul fronte delle competizioni Jano progettò, sempre nel 1931, la prima vettura
monoposto dell’Alfa Romeo, la Tipo A[65]. Il modello, che era straordinariamente
potente grazie all’installazione di due motori, era però poco robusto e difficile da
controllare[66]. Della stessa epoca è un’altra vettura da competizione progettata da
Jano, la P3 (“Tipo B”); essa, grazie alla numerose vittorie conquistate soprattutto
da Tazio Nuvolari, è considerata una delle migliori auto da competizione mai
costruite[67][68].
Gli anni trenta e quaranta[modifica | modifica sorgente]
Ugo Gobbato
Nonostante i successi sportivi, la situazione finanziaria dell’Alfa Romeo continuava
a essere critica[4]. Agli altri problemi negli anni trenta si aggiunse la grande
crisi economica che era iniziata nel 1929 con il crollo della Borsa di Wall Street e
che fece precipitare la situazione[4]. In questo contesto, nel 1933, il governo
italiano decise di rilevare le quote dell’Alfa Romeo che erano di proprietà delle
banche acquisendo ufficialmente il controllo dell’azienda, che diventò pertanto
statale[4][69]. In questa situazione, dato che i conti continuavano a peggiorare,
alcuni esponenti del ministero del Tesoro ipotizzarono la chiusura della casa
automobilistica[70]. A questo punto intervenne nuovamente Mussolini in persona che
decise, attraverso l’IRI (l’ente statale nato con lo scopo di sostenere le banche e
le aziende in difficoltà), di salvare l’azienda, dando l’incarico a Ugo Gobbato di
riorganizzare l’Alfa Romeo da un punto di vista sia finanziario sia produttivo[70].
L’interessamento personale di Mussolini non fu casuale: il Duce era infatti un grande
estimatore dell’Alfa Romeo soprattutto per i risultati sportivi conseguiti[70][71].
Furono nuovamente questi ultimi a spingere Mussolini ad andare contro l’opinione del
suo ministero decidendo, per la seconda volta, di salvare la casa automobilistica
milanese[70].
Un’Alfa Romeo 8C 2300 del 1933
Il salvataggio dell’Alfa Romeo fu ottenuto grazie al lavoro in sinergia compiuto da
Jano e Gobbato[72]: il primo continuò la sua opera di progettazione di nuovi modelli,
resi costantemente competitivi sul mercato grazie al contributo che Gobbato diede al
miglioramento dei processi produttivi[72]. Sono di questi anni la 6C 2300 (che era
caratterizzata da una struttura più semplice e che quindi vendette bene anche per il
prezzo più basso[71]), la 6C 2500 (che era la versione più potente e sontuosa dello
stesso modello) e la grande e lussuosa 8C 2900[73]. Nel complesso, gli anni
precedenti la seconda guerra mondiale furono caratterizzati da modelli potenti e
raffinati, contraddistinti da una linea elegante[73]. In particolare, i tre modelli
che negli anni trenta fecero poi dell’Alfa Romeo un marchio famoso in tutto il mondo
anche per le auto da strada furono la 6C 1500, l’8C 2300 e la già citata 8C 2900[74].
In questo contesto, nel 1933 Gobbato decise di ritirare l’Alfa Romeo dalla
partecipazione ufficiale e diretta alle competizioni, cedendo le sue vetture alla
Scuderia Ferrari, nata qualche anno prima e già da diverso tempo utilizzatrice di
auto della casa del Biscione[72][75]. Nel 1937 Jano fu però allontanato dall’Alfa
Romeo a causa di dissapori con la dirigenza, che lo criticò per i mancati successi
nelle gare (in questi anni ci fu infatti una supremazia delle auto tedesche[76])[72].
Il tecnico si difese adducendo come scusante il mancato sostegno da parte della
direzione, considerato necessario da Jano per lo sviluppo dei suoi progetti[72]. Jano
fu sostituito, in primo momento, da Bruno Trevisan, il quale, a sua volta, fu
rimpiazzato nel 1936 dallo spagnolo Wifredo Ricart[72]. Ricart lasciò un segno
indelebile nella storia dell’Alfa Romeo, dato che fu opera sua l’introduzione del
ponte De Dion sulle vetture del marchio; questa peculiarità tecnica avrebbe poi
caratterizzato per decenni i modelli della casa automobilistica milanese[72]. Per
quanto riguarda invece l’amministrazione di Gobbato, è indubbio che sia stata
fondamentale per il marchio il quale divenne, sotto la sua direzione, celebre e
stimato in tutto il mondo anche per le auto prodotte in serie[77]. La fama
internazionale conquistata dall’Alfa Romeo fece dire a Henry Ford, in un colloquio
che avvenne nel 1939 proprio con Gobbato, «quando vedo passare un’Alfa Romeo, mi
tolgo il cappello»[77]. Questa fama mondiale si consolidò grazie anche alle corse e
ai piloti che, nonostante la supremazia tedesca, ottennero comunque successi
rilevanti[77]. Tra coloro che contribuirono a scrivere pagine importanti della storia
dell’Alfa Romeo di questo decennio ci furono Giuseppe Campari, Tazio Nuvolari,
Achille Varzi, Louis Chiron e Mario Umberto Baconin Borzacchini[78][79].Un’Alfa Romeo
6C 2300 del 1938
Negli anni trenta ci fu anche l’affermazione dei veicoli commerciali Alfa Romeo, che
fu ottenuta soprattutto grazie al loro impiego nelle colonie italiane[80]. Tale era
la loro diffusione ed la loro reputazione, che ancora nel XXI secolo in Etiopia il
termine romeo indica genericamente l'”autocarro”[80]. I modelli di autocarri Alfa
Romeo più celebri vennero prodotti negli anni quaranta, cinquanta e sessanta e furono
il 430, il 900 e il Mille[21]. Sempre in questo contesto, all’inizio degli anni
trenta fecero la loro comparsa anche i primi autobus ed i primi filobus marchiati
Alfa Romeo i quali erano, in sostanza, degli autocarri modificati[81]. Dopo gli anni
cinquanta, la casa del Biscione iniziò a produrre questo tipo di veicoli senza farli
più derivare dai camion[82]. Con il passare del tempo la tradizione dell’Alfa Romeo
nel campo dell’assemblaggio di mezzi pubblici si consolidò, facendo diventare la casa
del Biscione uno tra i maggiori produttori italiani in questo settore[82]. Nello
specifico, produsse autobus e filobus fino agli anni sessanta, mentre continuò a
costruire mezzi più leggeri come scuolabus e minibus fino agli anni ottanta[82].
Anche questa prosecuzione della strategia di diversificazione della produzione fu
opera di Gobbato, che puntò anche sulla fabbricazione di motori aeronautici[72]; in
questo contesto, nel 1938, iniziarono i lavori di costruzione di uno stabilimento
produttivo a Pomigliano d’Arco, in provincia di Napoli, che si sarebbe dovuto
occupare della progettazione e dell’assemblaggio di questi tipi di motori[72]. Tale
sito industriale fu l’antenato del moderno stabilimento produttivo del gruppo Fiat
[83]. In questo contesto, nel 1941, nacque l’Alfa Romeo Avio, ovvero la divisione che
occupava esclusivamente della produzione aeronautica[84]. Sempre nel 1938 ci fu il
ritorno ufficiale dell’Alfa Romeo alle competizioni, con la fondazione dell’Alfa
Corse, cioè di una sezione che era collegata alla progettazione, alla realizzazione
ed alla manutenzione delle vetture da competizione e che era gestita da Enzo Ferrari
[85]. I modelli da gara prodotti in questo periodo vennero invece progettati da
Gioacchino Colombo e Luigi Bazzi sotto la guida di Ricart[85]. Enzo Ferrari lasciò
poi l’Alfa Corse nel 1939 a causa dei contrasti che si erano creati con gli altri
membri del reparto sportivo[86].
Verso la fine degli anni trenta la situazione politica in Europa stava però mutando.
I venti di guerra portarono le varie nazioni, Italia compresa, verso la corsa agli
armamenti[73][87]. La produzione industriale dell’Alfa Romeo fu orientata verso
l’assemblaggio di motori aeronautici e autocarri, che sarebbero stati più utili
all’Italia in caso di conflitto armato[69]. L’assemblaggio di autovetture civili si
ridusse quindi drasticamente a favore soprattutto della produzione aeronautica, che
negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale generava quasi l’80% del fatturato
dell’Alfa Romeo[69]. La tradizione dell’Alfa Romeo in campo aeronautico affondava le
sue radici negli albori della storia del marchio[88]. Con il passare dei decenni, i
motori aeronautici dell’Alfa Romeo diventarono celebri per la loro partecipazione
vittoriosa ai vari tentativi di infrangere i record mondiali in campo aeronautico e
per i loro trionfi sportivi, dove dimostravano una certa supremazia tecnica[88]. I
motori aeronautici della casa del Biscione furono quindi montati su un numero
ragguardevole di aerei della Regia Aeronautica, contribuendo a scrivere pagine
importanti della storia dell’aviazione italiana[89][90]. Nel campo dei motori
militari, molti vennero derivati da modelli, come il Jupiter[91], prodotti su licenza
e caratterizzati da potenze che se negli anni trenta erano adeguate, con la rapida
evoluzione della tecnologia si dimostrarono in seguito troppo basse per l’impiego
bellico, mentre sempre alta rimase la affidabilità e la robustezza. I motori militari
erano quasi tutti radiali e raffreddati ad aria; fece eccezione l’RA 1000 RC.41 che
era una produzione su licenza del famoso Daimler-Benz DB 601 ed equipaggiò i caccia
Macchi M.C.202 e Reggiane Re.2001.
Per quanto riguarda invece le competizioni, la seconda parte degli anni trenta vide
una supremazia delle auto tedesche[76]: il regime nazista aveva deciso di destinare
cospicui fondi all’Auto Union ed alla Mercedes-Benz con l’obbiettivo di rendere più
competitive, e quindi vittoriose nelle competizioni, le due case[76]. La limitatezza
delle risorse che l’Italia poteva fornire all’epoca non permise all’Alfa Romeo di
fare altrettanto, rispondendo in pista alle vittorie tedesche[76]. Di questi anni è
però la realizzazione della 158, ovvero una delle più riuscite auto da competizione
prodotte dalla casa[92] che, dopo il secondo conflitto mondiale, avrebbe conquistato
l’edizione inaugurale del Mondiale di Formula 1[69]. La guerra scoppiò nel 1939 e, a
causa degli eventi bellici, il 29 febbraio 1940 l’Alfa Corse venne temporaneamente
chiusa[93]. L’Italia entrò in guerra nel giugno dello stesso anno.
La seconda guerra mondiale lasciò molti segni anche nello stabilimento del Portello,
considerato molto importante per l’approvvigionamento bellico[94]. Già durante la
guerra fu deciso di spostare alcuni reparti nell’hinterland milanese e di trasferire
parte del magazzino nei dintorni di Vicenza, per difendere queste risorse dai
bombardamenti[95]. Inoltre Gobbato predispose un piano di occultamento dei componenti
delle vetture, piano che si sarebbe rivelato fondamentale per la ripresa delle
attività produttive a conflitto terminato[95]. A causa della sua importanza
strategica, il 14 febbraio ed il 13 agosto del 1943 lo stabilimento milanese subì due
pesanti bombardamenti[95]. Il colpo di grazia venne il 20 ottobre del 1944, quando il
più violento bombardamento che avesse subito Milano fino ad allora causò
l’abbattimento di oltre il 60% della struttura, cagionando la chiusura del sito
produttivo[73][94][96]. Lo stabilimento di Pomigliano d’Arco subì la medesima sorte
il 30 maggio 1943, con la distruzione del 70% delle strutture operative[95].
Gli anni cinquanta[modifica | modifica sorgente]
Una delle 6C 2500 post belliche
A conflitto terminato (1945), l’Alfa Romeo si trovò in una situazione di grandissima
difficoltà. Durante la guerra lo stabilimento del Portello era stato pesantemente
danneggiato e non esisteva pressoché più un mercato automobilistico italiano[73].
C’era poi penuria di materie prime e mancavano gli uomini che avrebbero potuto
gestire la situazione; Gobbato era infatti stato assassinato e Ricart, che era legato
a Francisco Franco, era tornato in Spagna in seguito alla caduta del fascismo in
Italia[94][97]. Sin dalla fine della guerra, l’azienda cercò di rimettere in funzione
gli impianti danneggiati dedicandosi inizialmente alla costruzione di cucine
elettriche, serramenti, motori elettrici, respingenti per carrozze ferroviarie e
mobili[94][97][98].
Orazio Satta Puliga
Però già alla fine del 1945 l’Alfa Romeo ritornò alla tradizionale attività di
produzione di automobili con la realizzazione di due esemplari di una vettura
prebellica, la 6C 2500[94]. L’anno seguente, grazie alla grande disponibilità di
manodopera e alle cospicue giacenze nei magazzini di componenti automobilistici che
si erano salvati dai bombardamenti, la produzione automobilistica riprese con
costanza, sempre grazie all’assemblaggio di esemplari di 6C 2500[69][99][100]. Non fu
messa in produzione la 6C 2000 “Gazzella”, un prototipo che era stato progettato da
Ricart durante gli ultimi anni della guerra e che era dotato di una meccanica
all’avanguardia (ad esempio, il modello anticipò la trasmissione transaxle che fu poi
montata trent’anni dopo sull’Alfetta)[96]. La dirigenza Alfa Romeo operò questa
scelta perché la messa in produzione di un modello completamente nuovo implicava un
cospicuo investimento di fondi[96]. Nonostante l’auto rientrata in produzione
risalisse a prima della guerra, la risposta del mercato fu buona[100]: grazie alla
crescente domanda di vetture che derivava dai primi accenni di ripresa economica,
questi esemplari, appena completati, lasciavano la fabbrica destinati agli
acquirenti[100]. Oltre alla ripresa del mercato, anche l’abbondanza della manodopera
contribuì a far ripartire l’Alfa Romeo, dato che era interesse del governo far
riassorbire i disoccupati nelle fabbriche[100]. Una versione speciale della 6C 2500
denominata “Freccia d’Oro” venne molto apprezzata dal pubblico e fu acquistata anche
dal re Faruq I d’Egitto, da Rita Hayworth e da Tyrone Power[97]. Invece, sul fronte
delle competizioni, nel 1947 l’Alfa Romeo conquistò con una 8C 2900B del 1938 la
prima edizione della Mille Miglia organizzata dopo la fine della guerra[101].
Sul fronte manageriale, nel 1946 fu nominato responsabile tecnico Orazio Satta
Puliga, il cui contributo si sarebbe rivelato decisivo per il rilancio del marchio
[100]. Satta Puliga dimostrò infatti il suo valore negli anni successivi,
trasformando l’Alfa Romeo in una casa automobilistica produttrice di autovetture
aventi una diffusione più ampia, perlomeno rispetto ai modelli prodotti fino ad
allora[100]. Anche in questo momento di difficoltà, come era già capitato con
Gobbato, l’Alfa Romeo trovò pertanto l’uomo adatto a risolvere i problemi[100].
Queste scelte furono prese in sinergia con Giuseppe Luraghi, che era presidente di
Finmeccanica, ovvero della finanziaria caposettore dell’IRI che era proprietaria
dell’Alfa Romeo[102]. Fu infatti Luraghi a nominare Satta Puliga responsabile tecnico
della casa del Biscione: l’obiettivo del dirigente milanese era rilanciare il
marchio, dato che riconobbe nell’Alfa Romeo grandi potenzialità di espansione
(Luraghi sarebbe poi rimasto in Finmeccanica fino al 1956)[102]. Il primo
provvedimento che Satta Puliga prese dopo la nomina a responsabile tecnico fu quello
di modernizzare la 6C 2500, dando vita nel contempo alla fase progettuale per il
lancio di un nuovo modello[99]. Inoltre affidò ad aziende esterne la produzione di
componenti secondari, abbattendo così parte dei costi necessari per assemblare le
vetture[99]. Il nuovo modello, a cui fu dato il nome di 1900, debuttò nel 1950 e fu
decisivo per il salvataggio dell’azienda[69][103]: nel 1949 Finmeccanica era infatti
intenzionata a chiuderla a causa delle basse vendite di autovetture e del drastico
calo degli ordini relativi ai motori aeronautici[104] che, con la fine della guerra,
erano molto meno richiesti dal mercato[104]. Inoltre, la partecipazione assidua alle
competizioni comportò l’utilizzo di molti fondi e quindi la situazione finanziaria
dell’Alfa Romeo non era florida[104].
Un’Alfa Romeo 1900
L’Alfa Romeo 159 che vinse il campionato del mondo di Formula 1 nel 1951
Per sviluppare il progetto della 1900, Satta Puliga tenne presenti alcuni principi
fondamentali che si sarebbero rivelati determinanti per il successo della vettura:
l’affidabilità, la semplicità di guida, le caratteristiche sportive e un prezzo non
proibitivo[103]. In particolare, la guidabilità fu un aspetto fondamentale per
allargare il bacino della potenziale clientela; ora, infatti, una 1900 poteva essere
acquistata e guidata anche da conducenti non molto esperti[105]. I costi di
produzione vennero invece abbattuti grazie all’introduzione anche al Portello, nel
1952, della catena di montaggio (le prime 1900 non erano state prodotte in catena)
[103][106]. Grazie a questa tecnica costruttiva, che fu introdotta in Alfa Romeo
sempre per volere di Satta Puliga e che fu sviluppata grazie agli aiuti del Piano
Marshall, il tempo necessario per assemblare una vettura scese da 250 a 100 ore,
consentendo però di mantenere alto quello standard qualitativo che era necessario per
un modello Alfa Romeo[103][107]. L’IRI, infatti, non era in grado di elargire
cospicui fondi da investire nella casa automobilistica e quindi furono decisivi, per
il rilancio del marchio, gli aiuti provenienti dagli Stati Uniti[107], che
destinarono alla casa milanese, attraverso il Piano Marshall, 5 milioni di dollari
[107]. Con la 1900, l’Alfa Romeo passò quindi da casa automobilistica che assemblava
modelli di lusso, a livello quasi artigianale, a marchio che produceva
industrialmente i propri prodotti, i quali diventarono alla portata di un numero
maggiore di potenziali acquirenti grazie all’abbattimento dei costi di produzione[5].
La 1900 ebbe anche altri due primati: fu la prima Alfa Romeo ad avere una struttura a
monoscocca e a possedere la guida sul lato sinistro[103][108]. Tutte le vetture Alfa
Romeo che seguirono la 1900, tranne alcuni modelli da competizione, avrebbero avuto
la guida sinistra[108]. Il nome del modello era invece collegato alla cilindrata del
motore, che era 1.884 cm3, mentre la meccanica derivava dalle Alfa Romeo da
competizione[109]. La 1900 si affermò subito sui mercati, dato che era un modello
dalle prestazioni particolarmente brillanti ma, nel contempo, prodotto in serie e
quindi venduto a un prezzo relativamente contenuto[103]. Il nuovo corso portò subito
i suoi frutti: dallo stabilimento del Portello ora uscivano migliaia di veicoli
l’anno e questo fu un primato: in precedenza la produzione si attestava al massimo a
mille vetture annue, spesso senza raggiungere il numero di esemplari pianificato
[110][105].
Grazie all’aumento dei volumi produttivi, la gamma della 1900 venne in seguito
ampliata[105]. Nel 1951 fu lanciata la 1900 Sprint, una coupé dotata di un motore più
potente, e l’anno successivo venne introdotta la berlina 1900 TI, che era
equipaggiata dal medesimo propulsore della 1900 Sprint e che venne invece destinata
anche alle competizioni[103]. Per questi motivi fu scelto, come slogan pubblicitario
della 1900, il motto «la macchina da famiglia che vince le corse»[110]. Dalla 1900
derivò poi la cosiddetta “Disco Volante”, che fu particolarmente apprezzata per le
linee futuribili[111]. Questa vettura fu però allestita in pochissimi esemplari e non
entrò mai in produzione di serie[111].
In questo contesto arrivarono anche due vittorie importanti nelle gare
automobilistiche. Due Alfa Romeo vinsero infatti le prime due edizioni del campionato
mondiale di Formula 1, conquistando il titolo nelle stagioni 1950 e 1951 grazie,
rispettivamente, a Nino Farina a bordo di una 158 (soprannominata “Alfetta” per le
dimensioni contenute[69]), ed a Juan Manuel Fangio, che invece pilotò una 159[69].
Dopo queste due vittorie, nonostante le lamentele degli appassionati, degli addetti
ai lavori e di parte degli esponenti politici più in vista, l’Alfa Romeo si ritirò
momentaneamente dalla Formula 1 a causa degli alti costi che erano necessari per
proseguire la partecipazione al campionato[69][112].
Un altro modello prodotto in questi anni fu la Matta, cioè un fuoristrada che nacque
in seguito all’adesione dell’Alfa Romeo ad un bando dell’Esercito Italiano per la
fornitura di vetture da ricognizione; di questo modello, però, le Forze armate
italiane acquistarono pochi esemplari a causa del costo, che era superiore a quello
della vettura concorrente, la Fiat Campagnola[113]. La Matta non ebbe un riscontro
positivo neppure dal mercato privato[113]. Sempre in ambito di fornitura allo Stato,
fu invece la 1900 ad aprire la strada alla vendita di auto Alfa Romeo alla polizia:
fu il modello che inaugurò la celebre serie delle “Pantere”, ovvero delle vetture in
dotazione alla squadra volante il cui soprannome derivava dal colore nero, dalle
forme aggressive e dalle prestazioni scattanti[113]. Nel 1954 fu invece introdotto il
primo furgone costruito dall’Alfa Romeo, il Romeo, che fu in produzione fino al 1967
[114]. Successivamente vennero prodotti l’F11/A11 (tra il 1967 e il 1971) e
l’F12/A12, che fu assemblato tra il 1967 e il 1983[114].
Un’Alfa Romeo Giulietta
La 1900, per questioni tecniche, era però ancora legata alle Alfa Romeo prebelliche
[5]. Grazie alle ottime vendite registrate e al successo del cambio di strategia
aziendale, che prevedeva ora modelli commercializzati in volumi di vendita
relativamente elevati, all’Alfa Romeo si decise di progettare un nuovo modello
destinato questa volta alla media borghesia, contando anche sul fatto che il mercato
automobilistico italiano, nella seconda parte degli anni cinquanta, si era pienamente
ripreso dalla crisi economica postbellica[5][113]. In aggiunta, al Portello serviva
una vettura prodotta in grandi volumi che permettesse di dare respiro alle casse
dell’azienda[115]. Nacque così la Giulietta, cioè un modello più piccolo, meno
costoso e costruttivamente più semplice della 1900[111][113][115]. In Italia,
infatti, si era in pieno boom economico e quindi i consumi crescevano costantemente
portando così sempre più potenziali clienti nella situazione di potersi permettere un
modello come la Giulietta, preferendola alla poco brillante Fiat 1100 o all’elegante
Lancia Appia[116]. Allo sviluppo della Giulietta partecipò anche Rudolf Hruska,
l’ingegnere austriaco che pochi anni prima aveva progettato il Volkswagen Maggiolino
e che fu assunto in Alfa Romeo per volere di Luraghi[102][116]. Negli anni seguenti
al lancio seguirono molte versioni della Giulietta, che montavano tutte un motore da
1,3 L da cui Giuseppe Busso, ovvero il progettista che sviluppò la meccanica dei
modelli Alfa Romeo a partire dalla 1900, riuscì a ottenere fino a 90 CV di potenza
[117]. Fu pertanto deciso di non utilizzare il più comune motore da 1,1 L per non
irritare la Fiat, che infatti dominava questa fascia di mercato con la 1100[118]. La
Giulietta restò però un desiderio irrealizzabile per la grande maggioranza degli
italiani, che non poteva permettersela; nonostante questo, il modello ebbe un
successo senza precedenti per un modello Alfa Romeo e si guadagnò il soprannome di
“fidanzata d’Italia”[117]. Con la Giulietta nacque il termine “alfista”, che da
allora avrebbe definito gli appassionati del marchio milanese[117].
Alla Giulietta seguì nel 1958 la poco fortunata 2000, che non raggiunse le quote di
mercato sperate a causa della concorrenza della più riuscita Lancia Flaminia,
dell’arretratezza della meccanica e del prezzo troppo alto[119]. Nel 1959 l’Alfa
Romeo introdusse invece la Dauphine, un’utilitaria prodotta su licenza Renault che fu
lanciata sui mercati per saturare le linee produttive dello stabilimento del
Portello[120]. Dato che in Italia la fascia di mercato delle utilitarie era
controllata in modo quasi assoluto dalla Fiat, la direzione dell’Alfa Romeo decise di
non investire risorse nello sviluppo di un modello completamente nuovo, ma di
appoggiarsi a un altro marchio automobilistico che avesse più esperienza su questo
tipo di vetture[120]. La Dauphine non ebbe però il successo sperato[121]. Comunque,
grazie al lancio della 1900 e della Giulietta, le vendite dell’Alfa Romeo dal 1951 al
1957 ebbero un incremento del 187%, e ciò garantì la salvezza del marchio[122].
Gli anni sessanta[modifica | modifica sorgente]
Giuseppe Luraghi
Agli inizi degli anni sessanta venne introdotta la 2600, che sancì il ritorno ai
modelli con motore di grande cilindrata[123]. Evoluzione della 2000, fu l’ultima Alfa
Romeo con propulsore bialbero a sei cilindri in linea[120]. In questo contesto, la
dirigenza della casa automobilistica milanese decise di dare la priorità alla
progettazione del modello successore della Giulietta che, nel frattempo, era arrivata
al centomillesimo esemplare prodotto (questo traguardo, raggiunto nel 1961, venne
celebrato alla presenza dell’attrice Giulietta Masina)[69][121]. La necessità del
nuovo modello si faceva infatti sempre più pressante, dato che uno dei settori più in
espansione, grazie al benessere sempre più diffuso a tutti i livelli, era quello
delle vetture medie; inoltre, la concorrenza su questo mercato era diventata
agguerrita, con la clientela che chiedeva modelli sempre più potenti e dalle
prestazioni brillanti[121][124]. Sul fronte manageriale, nel 1960 Luraghi diventò
presidente e tornò così a occuparsi della casa automobilistica del Biscione dopo
un’esperienza alla Lanerossi[102][125].
Un’Alfa Romeo Giulia
Un’Alfa Romeo 1750 GT Veloce del 1969
Nel frattempo la capacità produttiva dello stabilimento del Portello stava giungendo
a saturazione e quindi si rese necessario un ampliamento delle infrastrutture
industriali[98]. La fabbrica del Portello si stava però progressivamente inserendo
nel tessuto urbano di Milano a causa dell’espansione urbanistica della città, e
quindi la dirigenza dell’Alfa Romeo decise di aprire un nuovo stabilimento alle porte
di Milano che non avesse i problemi del sito urbano[98]: l’espansione del centro
abitato di Milano comportava infatti l’impossibilità di ingrandire la fabbrica[98].
La decisione ufficiale di aprire un nuovo sito produttivo fu presa il 27 febbraio
1959, quando il consiglio di amministrazione decretò l’acquisto di un vasta area
libera appena fuori Milano, tra i comuni di Arese e Garbagnate Milanese[98][126]. Le
fasi costruttive dello stabilimento di Arese, voluto fortemente da Luraghi, si
protrassero però più del preventivato per problemi inerenti agli appalti e quindi
l’inaugurazione della struttura slittò al 1963[121][127][128]. Per tale motivo,
l’assemblaggio del modello successore della Giulietta fu inizialmente previsto al
Portello, con l’intenzione di trasferire la produzione ad Arese quando il nuovo
stabilimento fosse stato completato[121]. Sempre in riferimento alle infrastrutture,
di questi anni fu anche l’inaugurazione del Centro Sperimentale di Balocco, ovvero di
una pista destinata al collaudo delle vetture che riproduceva le curve più famose ed
impegnative dei circuiti motoristici dell’epoca[69][129].
La progettazione del modello che avrebbe sostituito la Giulietta nel frattempo andava
avanti con il proposito di effettuare il lancio sui mercati prima dell’uscita di
produzione della vettura antenata[130]. La prima versione della Giulia, questo il suo
nome, venne introdotta sui mercati nel giugno del 1962[130]. Già dalla denominazione,
si capì la sua collocazione sui mercati[130]. Leggermente più grande della Giulietta,
si collocò infatti in una fascia lievemente più elevata[130]: mentre la Giulietta era
concorrente dei modelli aventi una cilindrata di circa 1300 cm³, la Giulia si
collocava nella fascia di mercato delle vetture che possedevano un propulsore da 1600
cm³[124]. La similitudine tra i due modelli non risiedeva però solo nel nome, dato
che la Giulia ereditò la tipologia di motori precedentemente montata sulla 1900 e
sulla Giulietta[124]. Ciò che cambiò fu la linea, che venne completamente ridisegnata
per volere di Satta Puliga[124]. Il risultato fu una carrozzeria molto particolare,
che non assomigliava a quella di nessun altra vettura contemporanea e che possedeva,
grazie all’uso della galleria del vento, una forma particolarmente aerodinamica[124].
Per il suo bassissimo Cx fu infatti coniato lo slogan «la Giulia, l’auto disegnata
dal vento»[130]. Il nuovo motore bialbero Alfa Romeo da 1,6 L, che debuttò sul
modello, permise alla Giulia di collocarsi al primo posto nella classifica delle
berline europee stilata in base alle prestazioni[130]. Negli anni seguenti furono
lanciate sul mercato molte varianti della Giulia, che completarono la gamma anche con
versioni spiccatamente sportive come la Giulia GT (in seguito commercializzata
semplicemente come “GT”)[131][132][133]. Grazie al benessere che iniziava a
diffondersi in Italia in seguito al boom economico, sempre più italiani potevano
permettersi un’Alfa Romeo[134]. La Giulia, anche grazie al motore da 1,3 L che si era
affiancato al citato propulsore da 1,6 L, fu l’emblema di questo periodo[134].
Infatti, le Giulia con motore da 1,3 L erano ad appannaggio dello borghesia medio-
alta, mentre i modelli con propulsore da 1,6 L erano acquistati generalmente da
clienti più abbienti[134].
Un’Alfa Romeo Spider “Duetto”
Un’Alfa Romeo 33 Stradale
Per completare la gamma, l’Alfa Romeo decise poi di lanciare sui mercati anche un
modello spyder dalle prestazioni brillanti che sarebbe succeduto alla Giulia Spider
la cui linea, a sua volta, derivava da quella della Giulietta Spider[133]. Il design
della linea della nuova vettura fu affidato alla Pininfarina che aveva disegnato, tra
l’altro, anche la carrozzeria delle sue due antenate[133]. Il modello da produrre in
serie debuttò nel marzo del 1966 con il nome di “1600 Spider”[133][135]. Subito dopo,
però, fu deciso di associare alla vettura un appellativo che entrasse
nell’immaginario collettivo e quindi venne indetto un concorso dalla rivista
Quattroruote dove i lettori avrebbero potuto suggerirne il nome; vinse un ingegnere
bresciano, Guidobaldo Trionfi, che aveva proposto il nome “Duetto”, richiamando il
fatto che il modello fosse a due posti[133][135]. Già nel 1966 tale appellativo venne
affiancato ufficialmente alla 1600 Spider, ma poté essere usato per poco tempo a
causa dell’omonimia con una merendina al cioccolato venduta all’epoca[133]. L’azienda
dolciaria produttrice rivendicò infatti il diritto esclusivo di utilizzo commerciale
della denominazione “Duetto” e quindi la casa automobilistica milanese fu obbligata a
cambiare il nome del modello in “Alfa Romeo Spider”; nonostante questa diatriba, il
modello è però universalmente conosciuto come “Duetto”[133][135]. Il pianale del
Duetto derivava da quello della Giulia, e fu l’ultimo lavoro di Battista Farina prima
di morire[133]. Il Duetto ebbe un grandissimo successo che travalicò i confini
nazionali arrivando fino agli Stati Uniti, dove fu molto popolare anche grazie
all’apparizione nel film Il laureato (1967; questa pellicola fu, tra l’altro, il
primo ruolo da protagonista di Dustin Hoffman)[6]. In questi anni l’Alfa Romeo, che
era all’apogeo della sua fama[6], introdusse un altro modello che passò alla storia,
la 33 Stradale[6]. Derivata dal modello da competizione Tipo 33 e dotata di una
carrozzeria che fu una tra le più belle della sua epoca, la 33 Stradale fu prodotta
in un numero molto ristretto di esemplari[6][136]. Il progetto da cui nacque la Tipo
33, ovvero la capostipite di molti modelli da competizione che corsero fino agli anni
settanta, fu un’idea di Luraghi[137].
Nel 1963, sempre per volere di Luraghi e grazie all’impegno di Carlo Chiti, nacque
invece l’Autodelta, che l’anno successivo si tramutò nella sezione corse dell’Alfa
Romeo[129][138]. Questo reparto corse esterno fu voluto da Luraghi per dotare l’Alfa
Romeo di una struttura snella e indipendente che sollevasse la casa madre dal
cospicuo lavoro connesso alle competizioni[139]. Nel 1966 l’Alfa Romeo acquistò
l’Autodelta, che divenne quindi il nuovo reparto corse ufficiale della casa
sostituendo quello interno all’azienda[140]. Uno dei modelli preparati dall’Autodelta
in questo periodo, la Giulia GTA, vinse, tra gli anni sessanta e settanta, sei
Campionati Europei Turismo[141][142][143].
All’epoca il dominio dell’Alfa Romeo nel categoria delle vetture medio-grandi era
incontrastato e quindi la casa automobilistica milanese decise di progettare un
modello che avrebbe sostituito la poco fortunata 2600 collocandosi nella fascia delle
auto di grande cilindrata[144]. Questa volta si optò per un modello più piccolo e
meno costoso, utilizzando come base la Giulia per limitare i costi di progettazione
[144]. Nacque così, nel 1967, la 1750[144]. La nuova vettura, che piacque al mercato,
fu però anche la prima “vittima” dell’autunno caldo visto che, a causa delle
agitazioni sindacali, furono registrati, a partire dal 1969, rallentamenti
nell’attività produttiva ed episodi di sabotaggio[144].
Gli anni settanta[modifica | modifica sorgente]
Gli anni sessanta e settanta furono caratterizzati dalla collaborazione tra l’Alfa
Romeo ed i migliori designer italiani; ad esempio lavorarono per la casa del Biscione
la Zagato, che disegnò le linee di molte coupé del marchio, la Pininfarina, a cui si
deve la Duetto, e la Bertone, che disegnò, tra l’altro, la Montreal del 1970[145],
modello che non ebbe il successo sperato perché fu lanciato sui mercati poco prima
della crisi energetica del 1973 e quindi venne penalizzato dagli alti consumi del suo
motore V8 da 2,5 l[146]. Per quanto concerne invece i modelli esistenti, nel 1971
dalla 1750 fu sviluppata la 2000[146].
Un’Alfa Romeo Alfasud
Sul fronte delle strategie aziendali, già alla fine degli anni sessanta venne deciso
il rifacimento dello stabilimento di Pomigliano d’Arco, che prevedeva la sua
trasformazione da centro produttivo di motori aeronautici a stabilimento
automobilistico a tutti gli effetti[147]. Il progetto di assemblare un modello di
piccole dimensioni in Italia meridionale risaliva comunque agli anni cinquanta anche
se, per varie vicissitudini, fu reso operativo solo negli anni settanta[148]. Uno dei
motivi che spinse Luraghi a investire nel Sud Italia fu il tentativo di limitare
l’emigrazione meridionale verso le fabbriche del Nord, portando quindi il lavoro
nelle zone di origine del fenomeno[83]. In questo modo, secondo Luraghi, si sarebbe
limitata la nascita di quei problemi sociali e di integrazione che scaturivano dal
massiccio esodo di migranti verso le regioni settentrionali[83].
La prima vettura che venne prodotta a Pomigliano d’Arco fu l’Alfasud, cioè un modello
medio-piccolo che segnò l’esordio della casa del Biscione in questo segmento e che
venne assemblata a partire dal 1972[149]. L’Alfasud era dotata di una carrozzeria che
nacque dalla matita di Giorgetto Giugiaro[149] e di un piccolo motore da 1,2 l che
però non pregiudicava, per le sue dimensioni, le brillanti prestazioni del modello
[150]. Il modello ebbe due primati: fu la prima Alfa Romeo a trazione anteriore ed il
primo modello della casa del Biscione ad aver installato il motore boxer Alfa Romeo
[142][151]. Già al momento del lancio, l’Alfasud ebbe un buon successo commerciale
anche grazie all’ampliamento verso il basso della potenziale clientela[150].
Quest’ultima, infatti, ora comprendeva anche possibili acquirenti che in precedenza
non avrebbero mai potuto permettersi un modello Alfa Romeo nuovo[150]. Dato che ora
la produzione non era realizzata solo in provincia di Milano ma anche in Campania, al
marchio Alfa Romeo venne rimosso il riferimento al capoluogo meneghino[83].
Un’Alfa Romeo Alfetta
All’Alfasud, sempre nel 1972, fu affiancato un nuovo modello, l’Alfetta, ovvero una
berlina di fascia medio-alta che si collocò – nella gamma Alfa Romeo – tra la Giulia
e la 2000[83]. L’Alfetta era mossa dalla versione da 1,8 l del motore bialbero Alfa
Romeo che aveva fatto il suo debutto nel 1968 sulla 1750[142]. L’Alfetta presentava
una meccanica completamente nuova che fu sviluppata per modernizzare la trasmissione,
le sospensioni e il telaio, i cui schemi risalivano ormai alla 1900[152] ed erano
diventati obsoleti, soprattutto alla luce del progresso tecnologico fatto dalla
concorrenza[152]. Il nome della nuova vettura derivava invece dal soprannome del
modello da competizione che aveva vinto il primo campionato del mondo di Formula 1,
la 158[152]. La scelta del nome non fu casuale e non venne neppure dettata dalla
tradizione: la nuova meccanica, infatti, derivava dalle vetture da competizione e
comprendeva un telaio con sospensioni anteriori a quadrilateri ed un ponte posteriore
De Dion[152]. La trasmissione seguiva invece lo schema transaxle, con il cambio e la
frizione montati in blocco nel retrotreno per ottenere una perfetta ripartizione
delle masse[152]. Nello specifico, la soluzione del ponte De Dion derivava dalle
vetture da competizione degli anni cinquanta e venne installato perché permetteva
alle ruote di muoversi indipendentemente senza avere deviazioni sfavorevoli della
campanatura, con conseguente miglioramento della tenuta di strada[153]. Per queste
novità tecniche, l’Alfetta suscitò inizialmente qualche dubbio in alcuni dirigenti
dell’Alfa Romeo, che temevano una risposta negativa da parte del mercato[83] abituato
alla classica e collaudata meccanica Alfa Romeo: non si poteva prevedere con certezza
la reazione dei potenziali acquirenti nei confronti di un cambiamento così radicale
[83]. Da un punto di vista meccanico l’Alfetta era però all’avanguardia, e nessun
altro modello della concorrenza possedeva uno schema così raffinato[154]. Il nuovo
modello aveva però un difetto rilevante: possedeva qualche problema d’assemblaggio
[154].
L’Alfa Romeo 33 SC 12 campione del mondo SportPrototipi nel 1977 con Arturo Merzario,
Vittorio Brambilla e Jean-Pierre Jarier[154]
Un’Alfa Romeo Giulietta
Per quanto riguarda le competizioni, gli anni settanta videro l’Alfa Romeo impegnata
soprattutto nelle corse con auto a “ruote coperte”, in particolare con la Tipo 33 e
le sue derivate, che si imposero in due edizioni del campionato del mondo
sportprototipi (1975 e 1977)[155]. Nell’edizione del 1977 l’Alfa Romeo vinse tutte le
gare in calendario nella propria categoria, mentre in quella del 1975 si impose nella
graduatoria assoluta[155]. I piloti artefici di questi successi furono Arturo
Merzario, Jacques Laffite, Jochen Mass, Derek Bell, Nino Vaccarella, Jean-Pierre
Jarier, Vittorio Brambilla e Henri Pescarolo[155].
Nonostante le vittorie sportive, gli anni settanta non furono altrettanto fortunati
riguardo alla produzione di serie, soprattutto a causa della crisi petrolifera del
1973 che colpì pesantemente il comparto dell’auto[7]. Le vendite di autovetture
registrarono infatti un vistoso calo a causa del rapido e vertiginoso aumento del
prezzo dei carburanti[7]. Invece, sul fronte manageriale, nel 1974 Luraghi lasciò
l’Alfa Romeo[125] in seguito allo scontro avvenuto con i dirigenti dell’IRI e del
CIPE per la possibile realizzazione di un quarto stabilimento Alfa Romeo in Irpinia,
collegio elettorale di Ciriaco De Mita[102][156]. L’obbiettivo era infatti quello di
produrvi l’Alfetta con il contemporaneo ridimensionamento dello stabilimento di
Arese[102][157]. Luraghi reputava antieconomica la proposta di aprire un secondo
stabilimento al Sud, soprattutto alla luce delle difficoltà sorte a causa della crisi
energetica preferendo, al contrario, il potenziamento del sito produttivo di Arese
[102]. Questo quarto stabilimento Alfa Romeo non fu comunque mai realizzato[158].
Per quanto riguarda i modelli da strada, la seconda parte degli anni settanta fu
segnata dall’avvio di una fase di gravi difficoltà che si tradusse in una sostanziale
passività nei confronti dell’aggiornamento dei modelli più datati e del lancio di
nuove vetture[7]. La Giulia, che era obsoleta già da anni[7], fu sostituita solo nel
1977 dalla nuova Giulietta[159], che riprese la meccanica dall’Alfetta ma si
posizionò in una fascia di mercato inferiore dato che fu proposta con due
motorizzazioni più piccole, 1300 e 1600 cm³[159]. La carrozzeria era però
completamente diversa da quella della Giulia, poiché era caratterizzata da linee
squadrate[159][160]. Nel contempo fu introdotta l’Alfetta con motore da 2 l, il cui
debutto seguì di qualche anno la versione con propulsore da 1,6 l[161].
Poco più tardi, e dopo una lunga gestazione, venne introdotta la nuova ammiraglia, a
cui fu dato il nome di Alfa 6 (1979)[162]. Nonostante fosse dotata del celebre motore
V6 Busso, ovvero del primo motore a sei cilindri Alfa Romeo dopo quello installato
sulla 2600, l’Alfa 6 si rivelò un flop commerciale a causa della linea obsoleta, del
clima economico di quegli anni che sconsigliava l’acquisto di auto di grande
cilindrata e del crescente antagonismo dei modelli BMW e Mercedes-Benz[160][162]. Nel
medesimo anno debuttò la prima vettura italiana con motore Diesel sovralimentato,
l’Alfetta Turbodiesel; ebbe un buon successo soprattutto grazie alle prestazioni, che
la collocavano nelle prime posizioni della classifica stilata in base alle
performance delle vetture con questo genere di alimentazione[162]. L’affermazione
lenì l’insuccesso della prima Alfa Romeo Diesel, una Giulia a cui era stato montato,
nel 1976, il propulsore del furgone Alfa Romeo F12[162].
Alla fine degli anni settanta l’Alfa Romeo tornò a gareggiare in Formula 1. Il
preludio risaliva al decennio precedente, quando la casa del Biscione aveva fornito
il propulsore a scuderie minori[163], e alla prima parte degli anni settanta, quando
i motori Alfa Romeo erano stati montati, dal 1970 al 1971, su vetture McLaren e
March[164]. Con l’intenzione di far esperienza nei Gran Premi preparandosi nel
contempo a una partecipazione diretta come costruttore, nel 1975 l’Alfa Romeo stipulò
un accordo con la Brabham sempre per la fornitura di motori[164]. L’Alfa Romeo prese
poi parte al campionato di Formula 1 come costruttore dal 1979 al 1985, ma senza
ottenere grandi successi[165]. Questo ritorno in Formula 1 fu funestato dalla morte
del pilota Patrick Depailler, che si schiantò, durante alcune prove in Germania nel
1980, sulla sua Alfa Romeo[165].
Gli anni ottanta[modifica | modifica sorgente]
Un’Alfa Romeo 33
Un’Alfa Romeo Arna
Il periodo compreso tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta fu
caratterizzato dalla presenza, nella gamma Alfa Romeo, di modelli obsoleti e superati
che non vennero sostituiti da vetture nuove all’altezza del prestigio del marchio
[166]. Era lacunosa anche la fattura dei modelli, che difettavano per l’assemblaggio
poco curato e per la scarsa qualità dei materiali[166]. Quest’ultima, in particolare,
comportava anche problemi di ruggine al corpo vettura e ciò causò, tra l’altro, il
peggioramento dell’immagine del marchio, soprattutto in ambito internazionale[166].
Nel frattempo, la crisi energetica stava mitigando i suoi effetti inibitori nei
confronti dell’economia e ciò portò – tra le varie conseguenze – anche a una più
forte concorrenza da parte di case automobilistiche estere[166]. Pertanto l’Alfa
Romeo passò da una situazione caratterizzata dalla presenza di un solo concorrente
principale – la Lancia – a una nuova condizione che era contraddistinta dalla
presenza di una forte e crescente concorrenza dei modelli dei marchi stranieri, che
avevano beneficiato dell’internazionalizzazione dei mercati avvenuta durante la crisi
energetica[166]. In questo contesto sfavorevole, la situazione dell’Alfa Romeo
peggiorò ulteriormente[166]. Il primo provvedimento che fu preso dalla dirigenza
dell’Alfa Romeo per fronteggiare la situazione fu quello di operare, all’inizio degli
anni ottanta, un restyling dell’intera gamma con risultati esteticamente discutibili
[167]. Questo aggiornamento, di conseguenza, non portò i benefici sperati[167].
Un avvenimento che migliorò temporaneamente la situazione fu il lancio, nel 1983, del
nuovo modello che sostituì l’Alfasud, la 33[168]. La 33 si basava sull’autotelaio e
sulla meccanica del modello che rimpiazzava, ma presentava una carrozzeria dalle
linee moderne[168]. La 33 ebbe un ottimo riscontro commerciale e diede quindi un po’
di respiro alle casse dell’azienda[142][168]. Il successo fu anche decretato dalla
versione 4×4 e da quella familiare; quest’ultima, in particolare, aiutò a diffondere
questo tipo di carrozzeria tra gli italiani[169]. Fino ad allora, infatti, le vetture
familiari erano considerate solamente adatte a essere utilizzate come veicoli da
lavoro[169]. Come conseguenza del lancio della 33 familiare, ed anche grazie
all’omologa versione della Lancia Thema, gli italiani iniziarono ad apprezzare questo
tipo di carrozzeria anche come auto per famiglie[169]. Sempre nel 1983 prese vita il
tentativo di joint venture con la casa nipponica Nissan che portò alla messa in
produzione dell’Arna: basata sul telaio della Nissan Cherry e dotata della meccanica
della 33, l’Arna non ottenne però il successo sperato poiché la potenziale clientela
non riconobbe in questo modello i tratti caratteristici tipici delle vetture della
casa del Biscione, da cui il modello era infatti ben lontano, decretando quindi un
clamoroso flop commerciale[170]. Con questo modello, il prestigio dell’Alfa Romeo
raggiunse probabilmente il punto più basso della sua storia[169].
A questo punto l’Alfa Romeo si trovò priva della liquidità necessaria per rinnovare
in modo radicale la gamma con la sostituzione delle vetture più vecchie e quindi la
dirigenza decise di lanciare sui mercati una nuova ammiraglia che si sarebbe dovuta
basare sui modelli precedenti[171]. La 90, questo il suo nome, debuttò sui mercati
nel 1984 e sostituì sia l’Alfetta che l’Alfa 6[172]. Fu dotata della meccanica della
prima e di un moderno corpo vettura disegnato dalla Bertone[171].
Un’Alfa Romeo 75
La nuova ammiraglia fu però offuscata da un altro nuovo modello che era basato
sull’Alfetta, la 75[173]. La 75, che sostituì la Giulietta nel 1985, traeva il nome
dall’anniversario di fondazione dell’Alfa Romeo, che proprio quell’anno compiva 75
anni di attività, e fu l’ennesimo frutto della strategia di derivare i nuovi modelli
da vetture precedenti[173]. La 75 ebbe un buon successo sui mercati e fu la prima
Alfa Romeo a montare il nuovo motore Twin Spark[173][174]. Questo però non fu il
primo propulsore della casa ad avere la doppia accensione, che aveva debuttato nel
1914 sulla Grand Prix[26][174]. La 75 fu l’ultima berlina sportiva Alfa Romeo a
trazione posteriore[175] e venne offerta sui mercati con un’ampia gamma di
motorizzazioni[176].
Sul fronte delle competizioni, questi anni furono ricchi di soddisfazioni soprattutto
grazie alla GTV 6, che si aggiudicò il Campionato Europeo Turismo nelle stagioni
1982, 1983, 1984, 1985[177]. Sempre in riferimento alle gare, nel 1985 venne deciso
di liquidare l’Autodelta[178]; dall’anno successivo, le gare tornarono a essere
gestite dall’Alfa Corse, il cui nome era già stato associato a una struttura che si
era occupata delle competizioni della casa automobilistica del Biscione[140][178].
Un’Alfa Romeo 164
L’azienda, nonostante il lancio di modelli che ebbero un buon riscontro commerciale,
aveva però ancora i conti in rosso[173]. Questa situazione finanziaria era
principalmente dovuta agli alti costi di produzione; ad esempio, all’inizio degli
anni ottanta, l’Alfa Romeo per assemblare un’Alfetta spendeva una cifra tripla
rispetto al prezzo a cui il modello era poi venduto al pubblico[142]. Con l’obiettivo
di ridurre le perdite dell’IRI il suo presidente, Romano Prodi, decise di vendere la
casa automobilistica del Biscione a un gruppo privato[8]. Nel 1986, dopo un’accesa
battaglia con la Ford, il gruppo Fiat acquisì l’Alfa Romeo grazie all’intercessione
di Prodi che impedì, non senza polemiche, l’acquisto da parte del gruppo
automobilistico statunitense[8][179]. Dopo l’acquisizione, la Fiat decise di
accorpare l’Alfa Romeo a un’altra azienda del gruppo, la Lancia, dando vita alla
“Alfa-Lancia Industriale”, alla cui presidenza venne nominato Vittorio Ghidella[8]
[180]. Nel contempo, la nuova proprietà decise di ottimizzare la gamma delle vetture
con l’uscita di scena dell’Arna e della 90 e con l’aggiornamento degli altri modelli
rimasti in listino[8].
Nel 1987 venne introdotta la 164, un’ammiraglia che impiegava lo stesso autotelaio
utilizzato sulla Fiat Croma, sulla Lancia Thema e sulla SAAB 9000[8]. Ciò fu
possibile grazie a un accordo tra l’Alfa Romeo e i due gruppi automobilistici
concorrenti prima dell’acquisto da parte della Fiat, il cui scopo era quello di
contenere i costi di progettazione e sviluppo dei modelli[8]. La 164 presentava però
un disegno stilistico particolare, opera della Pininfarina[8]. Il modello rappresentò
una pietra miliare nella storia della casa, dato che fu la prima ammiraglia Alfa
Romeo a trazione anteriore[181]. Nel frattempo, prima del lancio dei nuovi modelli
che si sarebbero basati su pianali del gruppo Fiat, nel 1988 e nel 1989 erano state
riviste, rispettivamente, la 75 e la 33[181]. Sempre nel 1989 venne presentata una
coupé in serie limitata che aveva lo scopo di rinverdire la fama sportiva dell’Alfa
Romeo[181]. Alla SZ, questo il suo nome, venne poi affiancata nel 1991 la RZ, ossia
la sua versione cabriolet[182]. La SZ fu il primo modello Alfa Romeo interamente
progettato e prodotto sotto la guida del gruppo Fiat[183]. Nel 1988 terminò invece la
produzione dei furgoni[184]. Gli ultimi due modelli realizzati, l’AR6 e l’AR8,
traevano origine da un accordo con l’Iveco ed erano, rispettivamente, dei Fiat Ducato
e degli Iveco Daily rimarchiati[185][186]. Con essi, si concluse la produzione di
veicoli commerciali marchiati Alfa Romeo[21].
Gli anni novanta[modifica | modifica sorgente]
Un’Alfa Romeo 155
Un’Alfa Romeo 146
L’inizio del decennio conclusivo del XX secolo fu caratterizzato dall’ultimo
aggiornamento della Spider “Duetto”, le cui origini affondavano negli anni sessanta
[187]. Queste modifiche, che vennero introdotte nel 1990, comprendevano
l’installazione di paraurti in tinta con la carrozzeria e la revisione della parte
posteriore, il cui disegno era ora influenzato da quello della 164[187].
Il secondo modello interamente progettato e sviluppato dalla nuova proprietà fu
invece la 155, che venne introdotta nel 1992[188]. Basata su un pianale che era già
utilizzato da molte vetture del gruppo come la Fiat Tipo, la Fiat Tempra e la Lancia
Dedra, la 155 fu assemblata nello stabilimento di Pomigliano d’Arco[187][189]. A
causa della linea estetica, della meccanica di derivazione Fiat e dell’abbandono
della trazione posteriore a favore di quella anteriore la 155 non venne accolta con
favore dagli alfisti, nonostante la presenza di alcune soluzioni meccaniche raffinate
come il variatore di fase Alfa Romeo nei motori oppure la tecnologia della versione a
trazione integrale Q4, che derivava da quella della Lancia Delta Integrale[187][190].
La Fiat decise di derivare la meccanica dei modelli Alfa Romeo da quella delle
vetture Fiat con l’obiettivo di contenere i costi, scegliendo soluzioni che
semplificassero il più possibile gli schemi che erano alla base delle sospensioni,
della trasmissione e di altri elementi, prestando anche attenzione alla semplicità
manutentiva dei componenti meccanici[191]. La 155, nelle competizioni, vinse diversi
campionati nazionali Turismo, tra cui il prestigioso Deutsche Tourenwagen
Meisterschaft interrompendo il dominio delle vetture tedesche[192].
Poco dopo furono lanciati i due modelli che sostituirono la 33, la 145 e la 146, che
debuttarono, rispettivamente, nel 1994 e nel 1995[189][193]. Entrambe le vetture
erano berline basate sul pianale della 155 e erano caratterizzate da una carrozzeria
dai tratti innovativi: la 145 aveva dimensioni contenute e possedeva una carrozzeria
a tre porte e due volumi, mentre la 146 era a due volumi e mezzo, a cinque porte
[193]. Dalla 33 i due modelli ereditarono invece i motori boxer Alfa Romeo,
sostituiti qualche anno più tardi dai Twin Spark[189][194].
Il 1995 fu anche l’anno d’esordio di un’altra coppia di modelli che ripresero questa
volta due nomi storici per la casa del Biscione: la GTV e la Spider[9]. Vennero
introdotti per rilanciare la fama sportiva del marchio e quindi furono dotati di
motori dalle prestazioni brillanti[9]. La meccanica derivava però da quella della
Fiat Tipo, anche se fu realizzato un adattamento per fornire sportività ai modelli
[9]. Anche a causa della concorrenza delle omologhe vetture tedesche, i due modelli
non ebbero però il successo sperato[195].
Un’Alfa Romeo 156
L’anno della svolta per l’Alfa Romeo fu il 1997, grazie al lancio della 156[9]. La
156 sostituì la poco fortunata 155 e segnò, con la sua linea sportiva e innovativa,
una rottura con le vetture del passato marcando nel contempo l’inizio di un nuovo
concetto di stile che fu poi applicato anche sui modelli seguenti, pur con vari
aggiornamenti[9]. Questo nuovo concetto di stile, che fu opera di Walter de Silva,
coniugava le linee caratteristiche di famosi modelli Alfa Romeo del passato con
stilemi moderni[196]. La 156 ebbe subito un successo notevole e inaspettato tant’è
che vinse, nel 1998, il prestigioso premio di Auto dell’anno, anche grazie alla
meccanica raffinata[189][196][197]. È su questo modello che fu introdotto per la
prima volta il cambio selespeed, ovvero una trasmissione semi-automatica con due leve
dietro il volante che comandavano l’innesto delle marce; questo cambio derivava dal
mondo delle corse e il suo lancio era stato realizzato per consentire un impiego
sportivo della vettura[198]. La 156 fu inoltre la prima auto al mondo ad aver
installato il motore turbo diesel common rail[197]. Nel 2000 ne fu introdotta la
versione familiare, la Sportwagon[197].
Nel 1998 terminò la produzione della 164, che cedette il posto alla nuova ammiraglia
della casa, la 166[197]. La 166 si presentò con dimensioni ancor più generose della
progenitrice ma conservando la trazione anteriore[197]. Quest’ultimò aspetto generò
malumori da parte tra gli alfisti, anche alla luce della tendenza seguita dai marchi
rivali, indirizzata alla commercializzazione di modelli a trazione posteriore[197].
La 166 era però dotata di un abitacolo molto comodo e di un equipaggiamento
particolarmente ricco che rendeva il modello adatto, tra l’altro, agli itinerari
lunghi[199]. La 166 venne ritirata dal mercato nel 2007 dopo aver riscosso un buon
successo commerciale[200][201].
Per quanto riguarda le competizioni, in questo periodo l’Alfa Romeo conquistò con la
156 quattro titoli europei turismo piloti (dal 2000 al 2003) grazie a Fabrizio
Giovanardi e Gabriele Tarquini, e tre campionati europei turismo marche (dal 2000 al
2002)[189][202][203].
Gli anni duemila e duemiladieci[modifica | modifica sorgente]
Un’Alfa Romeo 147
Un’Alfa Romeo MiTo
Il nuovo millennio iniziò per la casa del Biscione sotto ottimi auspici commerciali.
Il nuovo modello che venne introdotto nel 2000, la compatta 147, ebbe infatti un
grande successo tra il pubblico e riuscì ad aggiudicarsi il premio Volante d’Oro nel
2000 e il titolo di Auto dell’anno nel 2001[201][204][205]. Da un punto di vista
stilistico, l’introduzione sulla 147 di un frontale dalle linee più decise e
definite, che ricordava quello della 1900, segnò l’inizio di un nuovo stilema che
avrebbe contraddistinto le parti anteriori dei modelli successivi e i facelift delle
vetture in listino[206].
Il 2003 fu caratterizzato dall’aggiornamento dell’intera gamma, che venne ottenuto
attraverso un radicale facelift[204]. Furono rinnovate infatti la 156, la Spider, la
GTV e la 166[204]. Sempre nel 2003 avvenne la presentazione del modello GT, che
l’anno successivo vinse il premio di “Automobile più bella del mondo”[207][208]. Nel
2004 venne invece aggiornata la 147 e furono lanciate sui mercati due nuove versioni
della 156, la Q4 e la GT[204].
Nel 2005 debuttò la 159, ovvero il modello di gamma medio-alta che sostituì la 156
[209]. Disegnata dalla Giugiaro, la 159 era sostanzialmente un’evoluzione del modello
che rimpiazzava nonostante fosse dotata di dimensioni e peso maggiori[209]. La
vettura venne realizzata in collaborazione con il gruppo General Motors; il pianale,
infatti, era frutto di una cooperazione con il marchio Opel che però non ebbe
seguito[209]. La 159 era dotata di un’ampia gamma di motori tra cui i clienti
potevano scegliere, e fu offerta sia in versione berlina sia familiare Sportwagon
[209]. Nello stesso anno debuttò la nuova coupé sportiva, nata sempre dalla matita di
Giorgetto Giugiaro e che prese il posto della GTV: la Brera[210].
Nel 2006 fu introdotta la nuova Spider, che era un’evoluzione della Brera e che
sostituì il precedente modello omonimo[210]. Il 2007 fu la volta del debutto della
supersportiva 8C Competizione, le cui forme vennero suggerite dalla 33 Stradale[210].
Venne commercializzata in serie limitata e i 500 esemplari previsti furono tutti
venduti appena introdotti sul mercato a facoltosi clienti[210]. Era dotata di un
motore V8 Maserati Squadra Corse da 4,7 l e 450 CV, che era assemblato dalla Ferrari
e che derivava dal propulsore montato sulla Maserati 4200 GT[210]. Il modello trasse
il nome dalle vetture Alfa Romeo con motore a otto cilindri commercializzate negli
anni trenta e quaranta e segnò il ritorno della casa del Biscione alla trazione
posteriore[211]. La vettura ebbe un ottimo successo e per tale motivo il gruppo Fiat
decise di realizzarne anche una versione spyder, che entrò in produzione nel 2009
[212]. Anche della versione aperta ne furono assemblati solo 500 esemplari[212].
Un’Alfa Romeo Giulietta
Nel giugno 2008 è avvenuto invece il lancio commerciale della compatta MiTo (“Mi” per
Milano, dove nacque l’Alfa Romeo, e “To” per Torino, dove viene costruita), che è
stata concepita per tentare di incrementare le vendite estendendo la gamma verso il
basso[212]. Si è posizionata al di sotto della 147 e – grazie alla sua immagine
sportiva e dinamica – è stata pensata per attrarre il pubblico giovanile[212]. La
MiTo è basata sulla meccanica della Fiat Grande Punto ed è stata la prima Alfa Romeo
a essere assemblata nello stabilimento Fiat di Mirafiori[212]. La MiTo è disponibile
con una ricca scelta di motori e presenta un Cx decisamente basso (0,29), conseguenza
di un approfondito studio sull’aerodinamica[213].
Nel 2010, in occasione del centenario di fondazione della casa, l’Alfa Romeo ha
presentato il modello che ha sostituito la 147, la Giulietta[214]. La vettura è
basata sul nuovo pianale FGA Compact e presenta caratteristiche meccaniche ricercate
come il cambio a doppia frizione[214]. La Giulietta, inoltre, è dotata del sistema
start e stop, dell’Alfa Romeo DNA (introdotto sulla MiTo nel 2008[215]), del
controllo elettronico della stabilità e del differenziale Q2[214]. Sempre nel 2010 la
Zagato ha presentato la TZ3, che è stata assemblata in dieci unità (compreso
l’esemplare one-off)[216][217]. In occasione del centenario si è avuta anche una
razionalizzazione della gamma, con l’uscita di scena della GT, della Brera e della
Spider[218][219]. Nel 2013 è entrata invece in produzione la 4C[220].

 

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